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Plastica pandemica: un virus per l’ambiente

L’hanno ribattezzata la “plastica pandemica”. Mascherine, guanti, test per il Covid, materiale sanitario usa e getta. Dall’inizio del 2020 ne è stato fatto un uso eccezionale rispetto al passato. Del resto la plastica, rispetto a qualsiasi altro materiale, è risultata perfetta in un periodo altrettanto eccezionale come quello che stiamo vivendo: è economica, resistente, monouso (oppure lavabile) ed è facilmente reperibile. Lo stesso discorso vale per tutti quegli imballaggi in plastica che la convivenza forzata con il virus ha introdotto nelle nostre vite per assicurarci un nuovo tipo di normalità. Solo per restare alla più grande fra le aziende di commercio elettronico, la statunitense Amazon, si è contato che l’aumento degli imballaggi in plastica derivati dagli acquisti online è stato di +200 milioni di chilogrammi. Uno sproposito. Con una domanda su tutte: che impatto ha tutto questo sull’ambiente?

La risposta sarà pubblicata il 23 novembre su PNAS, rivista della National Academy of Sciences Usa. Un team di ricercatori cinesi e californiani della Nanjing University e della University of California di San Diego hanno infatti analizzato il peso che la plastica pandemica ha e avrà su un ecosistema già pesantemente in affanno. I dati che presenteranno (anticipati da un comunicato stampa) si riferiscono ad agosto 2021 e riguardano 193 Paesi.

A causa dell’emergenza sanitaria sono stati prodotti 8,4 milioni di tonnellate di plastica fra rifiuti ospedalieri e imballaggi degli acquisti online. Entrando nello specifico, l’87,4 per cento arriva dagli ospedali, il 7,6 per cento è costituito dai dpi (i dispositivi di protezione individuale, come appunto le mascherine), il 4,7 per cento dal packaging e lo 0,3 per cento dai kit che contengono i test per il Covid.

La stima è che entro la fine dell’anno in corso si arriverà ad averne 11 milioni. E l’ipotesi che gli studiosi fanno è che 26mila di queste tonnellate finiranno nei mari, soprattutto quelli asiatici. C’è di più: ben il 73 per cento della plastica riversata in mare nel periodo analizzato è chiaramente di origine sanitaria, soprattutto di tipo monouso, e il 72 per cento proviene dall’Asia. Dati che collimano con quanto si era già accaduto nel 2020, l’anno in cui tutto ha avuto inizio, quando a finire nei mari di tutto il mondo sono state 1,56 milioni di mascherine.

Rifiuti che quindi fanno sempre più rima con Covid. Un’impennata di produzione e di consumi – inattesa e non preventivabile – che ci ha trovati impreparati. Siamo stati presi in contropiede non solo dal diffondersi del virus, ma anche da una montagna di rifiuti che non aveva e non ha un sistema di gestione a misura. L’urgenza all’interno dell’emergenza – in un mondo che, come testimoniato dalle recenti conclusioni della COP 26 che si è tenuta a Glasgow, fatica a trovare soluzioni rapide e condivise per la salvezza del Pianeta – è non solamente trovare materiali più ecologici da utilizzare sia in ambito sanitario che in quello della commercializzazione elettronica, ma soprattutto da un lato la messa a punto di nuove tecnologie di raccolta e di riciclo e dall’altro la capacità di implementare e migliorare la raccolta dei rifiuti ospedalieri. In primis nei Paesi in via di sviluppo.

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